Fame di riconoscimento

Oggi Giulia inizia la sua seduta riempendo lo spazio con un mare di parole, pronunciate in modo veloce e confuso. La sensazione è che stia rimbalzando all’impazzata tra le pareti della sua interiorità inquieta ed affannata e che debba correre, correre, saltare, saltare, di qua e di là, parlare e raccontare dettagli…tutto pur di non arrivare al centro, al cuore della questione. Sento che mi sta portando a spasso in luoghi vacui e inconsistenti. Capita non di rado che i pazienti lo facciano, tesi a difendersi inconsciamente dalla possibilità di entrare veramente in contatto con ciò che stanno sentendo, con ciò che realmente circola ad un livello profondo. Sembra un paradosso. Vengono per curarsi, ma spesso utilizzano tutte le loro forze per resistere alla guarigione. Perché guarire significa tornare a sentire e a volte non è facile se il sentire in gioco racconta di dolori lancinanti, paure immobilizzanti, vergogna, rabbia o disperazione. Perché guarire significa riconquistare potere personale, luce, valore, energia…e tutto questo, vi sembrerà un’assurdità, ma nella maggior parte dei casi spaventa a morte. In ogni disagio psichico giace quasi sempre una sottile e subdola paura, la paura di vivere. La morte interiore è (apparentemente) più sicura e agevole di una vitalità mai conosciuta e quindi spaventosa.

Giulia continua con i suoi voli pindarici della mente e quando questo accade io inizio a sentire insofferenza, noia, una strana sensazione di aridità, come se nel mio corpo mancasse acqua e si prosciugasse pian piano.

Prima di restituire ciò che osservo mi concedo di navigare nelle sensazioni che Giulia mi fa provare perché so molto bene che sono un indicatore inconfutabile di ciò che sente lei, di come vive per la maggior parte del suo tempo. I pazienti ci fanno sentire spesso come loro si sentono e tra i compiti del nostro lavoro c’è il farci contenitore dei loro vissuti, accoglierli dentro di noi per poi restituirli loro nella cornice di un processo che apre la possibilità di trasformare e far accadere qualcosa di diverso. I bordi periferici della speculazione mentale sono per Giulia un ottimo paravento per non “raggiungersi” in profondità. Strategia che da sicurezza ma che rende il suo mondo interno tutto nero, a volte grigio come lei stessa dice. Non c’è luce, non ci sono colori e sfumature, slanci vitali.

“… e allora mi spiega perché sono l’unica a far sempre le cose fatte bene? Perché mi sbatto tanto da mattina a sera, ci metto tutta me stessa e non ricevo mai un apprezzamento, un “brava”, uno straccio di riconoscimento????” dice Giulia… e finalmente nei suoi occhi appare un’emozione. Sento che è pronta per offrirmi un canale d’ingresso o meglio, è pronta per offrirlo a se stessa dopo tanto peregrinare tra pensieri e parole.

“Giulia come mai questo accade?”

“Ah non saprei, l’esperta è lei”, dice seccata, delegando a me una qualche risposta preconfezionata.

“Giulia, tu senti di darti riconoscimenti?”

Giulia cambia espressione del volto, affiora commozione. Si sente colta. Al contempo vedo la sua paura, sembra simile a quella di un animale che stava amabilmente fuggendo ma ad un tratto si sente braccato e costretto a fermare quella corsa senza sosta.

“No…” mi dice con un fil di voce.

“Cosa stai provando in questo momento?”

“Sento il cuore che batte forte, una strana agitazione e poi la nuca si irrigidisce”.

“Posso darti supporto nel provare a sciogliere questa tensione?”. Accetta.

Le propongo uno specifico lavoro che integra movimento ed utilizzo della voce per aiutarla ad andare oltre la sua resistenza. Poi le chiedo di lasciar andare il respiro e di restare in ascolto di ciò che accade al suo interno. Sciogliere le tensioni nel corpo facilita l’apertura di scenari inaspettati. E oggi insieme a me e Giulia arriva nella stanza un’ospite d’onore.

“Compare un’immagine…” dice Giulia. “Vedo me bambina… qui davanti a me. E ’seduta, ha lo sguardo basso, è triste e come sempre…aspetta. Aspetta di ricevere qualcosa…credo qualcosa che non ha mai avuto. Nessuno la apprezza, nessuno la guarda davvero, sono tutti troppo impegnati in altro”

“Senti che è un po’ come te? Che anche lei come te, è in attesa che qualcuno la apprezzi e riconosca il suo valore?”.

“Si, caspita…si…è proprio così”, dice Giulia scoppiando in un pianto liberatorio.

“Giulia, la tua bambina ci ha fatto un grande dono venendoci a trovare. E forse possiamo far qualcosa per prendercene cura. Ti va di fare un esperimento?”, annuisce. “Prova a guardarla e a vedere che ti succede se provi a dirle Sono fiera di te, se inizi tu a darle quel riconoscimento che le è mancato e che oggi sostiene il tuo senso di disvalore”.

“Non ci riesco, sento vergogna….questa vergogna mi blocca le parole in gola.

La vergogna è un tipico vissuto di chi ha fatto esperienze di non accettazione, di critica, svalutazione, derisione. E’un’emozione fredda che paralizza e che porta a nascondersi. Sovente, portare la vergogna allo scoperto in terapia e riattraversarla è un buon modo per guarirla.

“Prova a non respingere la tua vergogna, prova a respirarci dentro Giulia, ad immaginare che sia accanto a te e che tu possa accarezzarla. Accoglierla e prendertene cura ti aiuterà a far sì che non ti paralizzi.”

Giulia lavora da tempo. Coglie al volo il mio suggerimento…e questo le restituisce energia e possibilità.

Ritorna alla sua bambina davanti a sé e inizia a ripetere a voce alta tra lacrime di commozione e gioia:

“Sono fiera di te…sono fiera di te…io sono fiera di te”.

“Cosa dice la tua bambina Giulia?”

“Non ha più gli occhi bassi…ha alzato lo sguardo…e mi sorride, sì mi sorride un po’ intimidita”, dice Giulia con la stessa tenerezza di una bambina.

“Trova una parola per salutarla e poi preparati pian piano a riaprire i tuoi occhi”.

“Tornerò a trovarti e…mi prenderò cura di te”, dice Giulia.

Il dialogo empatico con il proprio bambino interiore offre una riparazione dall’interno, permette di vedere con chiarezza la nostra vera natura precedente alla costruzione di vecchi condizionamenti, schemi automatici che ci fanno sprofondare in comportamenti, pensieri e vissuti emotivi disfunzionali e distruttivi sia nei nostri confronti che nei confronti altrui. Il nostro bambino è in attesa di essere finalmente riconosciuto e visto nei suoi bisogni più antichi. I sintomi sono spesso frutto delle sue emozioni congelate che attendono di poter tornare alla luce e ricevere finalmente un trattamento diverso da quello ricevuto nel proprio passato. Questo può accadere in primis grazie ad una ritrovata capacità di cura della nostra parte adulta e in secondo luogo grazie ad esperienze correttive in relazioni per noi significative.

Mentre Giulia riemerge dal suo viaggio penso a tutti i suoi progressi, a quante emozioni difficili ha coraggiosamente attraversato nel suo percorso terapeutico, ai suoi passi in avanti conquistati con dedizione e costanza.

Giulia apre gli occhi.

“Sono fiera di te”, sono le parole che più spontaneamente ho voglia di dirle.

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